Articoli su Giovanni Papini

1957


Ettore Allodoli

Giovanni Papini

Pubblicato in: L'Italia che scrive, anno LX, fasc. 9, pp. 157-160.
(157-158-159-160)
Data: settembre 1957



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   C'è un ragazzo nella mia vita che non posso dimenticare e che mi ritorna insistente davanti, alle varie svoltate della via del ricordo. Mi sta lì, lungo, pallido, serio, motteggiatore terribile nelle tappe di sosta e di respiro dello spirito che, pur correndo avanti, si volta tanto volentieri indietro.
   Se questo ragazzo non fosse poi diventato, nella sua evoluzione ad uomo, il celebre scrittore che si chiamò Giovanni Papini, se questo ragazzo fosse morto sui suoi 15 o sedici anni o vissuto tranquillamente attendendo ai registri di cassa nel paterno negozio di mobili nel Borgo degli Albizi o avesse fatto il maestro elementare servendosi di un modesto diploma normale preso alle scuole di via San Gallo o fosse diventato titolare di una cattedra di filologia romanza per le sue straordinarie conoscenze di letterature neolatine, ebbene, questo Ragazzo sarebbe restato ugualmente quello che fu ed è, che ha colpito così fortemente, nella sua infanzia e nella sua prima adolescenza, tutti quelli che lo conobbero. Nessuno l'hai conosciuto più intimamente di me.
   Papini ha scritto in principio del suo romanzo lirico Un uomo finito: «Io non sono mai stato bambino. Non ho avuto fanciullezza» ma i primi capitoli di quel libro non vanno presi come un documento autobiografico: sono un'opera di fantasia e di arte fortemente radicata nella realtà esteriore ma diretti a un fine e una sintesi che scoppia soltanto nelle ultime pagine. Una parte Papini ha taciuta della sua fanciullezza pensosa, una parte che direi di gioco e di chiasso ma che anch'esso fu un gioco e un chiasso tutto suo: tutto pensiero e studio: mania di fare da piccolo quello che gli altri facevano da grandi e farlo già in maniera che fosse nuova e non moda servile.
   Mentre gli altri andavano in piazza Santa Croce o al Giardino d'Azeglio o a quello Torrigiani o ai baracconi del Parterre o dei Pratoni della Zecca, Papini, che pure ci andava anche lui e osservava e sapeva la vita della Firenze liscia onesta e quieta nelle sue lastre larghe e polite, Papini scriveva romanzi, pensava giornali e riviste, cercava un compagno alle imprese letterarie.
   Il primo a cui Papini deve avere affidato qualche cosa dei suoi puerili tentativi fu suo padre Luigi che era stato con Garibaldi al Volturno e ad Aspromonte: uomo d'ingegno, di poche parole e un po' cupo, aderente a quelle idee mazziniane repubblicane e popolane così vive a Firenze in quel tempo e che avevano il loro centro nella Fratellanza Artigiana in via dei Pandolfini. (Anche Giovanni Papini aderì nella sua prima adolescenza al partito Repubblicano nella sezione giovanile). Nelle passeggiate domenicali padre e figlio si scambiavano osservazioni suggestionanti perchè il padre alternava, con la cura del suo non redditizio magazzino di mobilia, il gusto delle letture razionalistiche e democratiche e della filantropia umanitaria frankliniana. (La madre, la signora Erminia Cardini, bella donna fresca vivace, con la sua bonaria mobilità alleggerì ed aggraziò la sostanziosa formazione psichica del ragazzo Papini). Il padre mori nel 1902 a Torino a 60 anni, la madre nel 1935 a 79 anni.
   Il ragazzo Papini ha il suo sviluppo tra il 1891 e il 1896-1898: la stia vita abitudinaria si svolgeva nella parte più bigia della vecchia gloriosa città: tra il Bargello e il Palazzo della Signoria, tra Santa Croce e il palazzo Nonfinito: le case in cui i suoi abitavano erano, ora in via Ghibellina; ora in Borgo degli Albizi, sempre all'ultimo piano, a cui si arrivava per scale dirupate, lunghe, faticose, coi gradini consunti e vecchi. La scuola elementare era in via dei Magazzini, piccola strada con le case alte alte che pare si uniscano sopra le nostre teste per nasconderci il cielo. A due passi, il teatro della Quarconia, più modernamente detto Nazionale, dove Stenterello ogni sera faceva la sua comparsa nei drammi popolari divisi in atti e quadri e preceduti da Prologhi, con l'attrattiva di un combattimento ad arma bianca dei Tramagnini: più in là la casa di Dante, la Pretura schiamazzante e piena di figuri, di miserabili e di cavalocchi: dalle strade vicine, ove c'erano depositi di grossisti, veniva un odore di baccalà secco che entrava dappertutto e pareva restasse appiccicato alle vesti.
   Dentro quest'aria grassa, sotto questo pigro cielo, «vidi un fanciullo pallido e dimesso».
   Quando entrai nelle scuole elementari di via dei Magazzini seppi che in 5a c'era uno scolaro più bravo di tutti e che era un fenomeno nei componimenti: ripeteva la quinta per via dell'aritmetica. La curiosità mi spinse a conoscerlo: era il più alto di tutti: d'una bruttezza nel volto che pareva di un adulto non di un fanciullo: di questa fiera bruttezza Papini si dichiarò «sempre orgoglioso». Dinoccolato, sgangherato nella persona e nelle lunghe gambe e guardava gli altri con una fiera aria di superiorità. Lo trovavo poi in piazza Santa Croce nei pomeriggi estivi dove le nostre mamme si riunivano a fare conversazione sulle panchine, quella piazza dove s'incontravano due mondi tanto distanti fra loro: della più perfetta e innocente onestà casalinga e della malavita anch'essa in aspetto bonario. Lì Papini si accorse di potere trovare in me un alleato nelle sue avventure libresche. Libro: questo l'ideale del ragazzo, l'ideale che poi è stato di tutta la vita fino agli ultimi giorni della sua esistenza. Mi diceva con vanto di aver letto (e io no ancora) I Miserabili di Victor Hugo, I Misteri del popolo di Sue, L'Assedio di Firenze del Guerrazzi. Il ragazzo mostrava allora al compagno, desideroso pure lui di sapere, tutta la gioia che la sete di conoscere e di creare può offrire, tutta la soddisfazione di staccarsi dagli altri e dal gregge comune e insegnava che c'erano divertimenti più nobili che pigliare un'indigestione di pasticcini o tirare le trecce alle bambine dalle gambe rotonde. Con una penna, un po' di inchiostro e qualche foglio di carta — diceva —si possono scrivere romanzi e novelle che non siano un copiaticcio di Verne o di Mayne Read e in cui ci siano cose cavate dalla propria testa e che facciano meravigliare i lettori, anche se questi ancora non esistano.
   Nacquero così quelle riviste manoscritte settimanali, quindicinali o mensili, d'una sola copia, Sapientia, Il giglio, La rivista, Il semestre e che dovevano sembrare edite da una casa editrice fiorentina con la sigla SEF. Papini faceva l'articolo di fondo politico, mirabile in un ragazzo, con spregiudicatezza di osservazione anche se rievocante talvolta giudizi che sentiva circolare nei giornali veri di destra o di sinistra. Come ho potuto, attraverso tante vicende, conservare tali preziose reliquie quasi quasi non saprei. Come pure mi sono rimasti anche abbozzi di romanzi scritti da lui o trame immaginate nelle quali v'era già un pessimistico senso della vita e delle cose, come, per esempio, in questo. Aveva letto in un giornale che certi animaletti microscopici rodono carte e documenti in un modo così invisibile che quelle carte e quei documenti rimangono apparentemente intatti ma basta toccarli leggermente perchè cadano in minutissima polvere. Su questo spunto immaginò le avventure di alcuni eredi di una enorme sostanza, ciascuno dei quali corre mezzo mondo per giungere a impossessarsi il primo di una preziosa cassetta contenente il documento che dà diritto a riscuotere il patrimonio. E ciascuno si affanna ad arrivare il primo e per impedire il viaggio dell'altro commette delitti e ignominie d'ogni genere, finchè uno di essi, lacero e sanguinoso, può mettere le mani sulla carta famosa. Ma questa, appena toccata, si polverizza e tutto finisce.
   Di tale roba Papini non si è poi mai curato di rievocarne l'esistenza nè chiari sono alcuni possibili accenni nell'Uomo finito. Ma dice bene a tal proposito Roberto Ridolfi, il maggior biografo di Giovanni Papini: «le solite cose da ragazzi, ma proprio per questo il biografo non può trascurarle; perchè su quelle pagine si misurano e si riducono alle loro vere proporzioni le membra, le anni, e le prime gesta libresche del giovanissimo caballero andante dell'onnisapienza, per certo precoci ma poi alquanto eroicizzate da lui». E Prezzolini, in una visita che mi ha fatto recentemente, diceva, avendo scorso queste vecchie carte ingiallite, che pure da tali prime manifestazioni segrete, ma con desiderio di pubblicità, si potevano già prevedere molte


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delle intenzioni di lui, non soltanto di erudizione libresca.
   Dopo il 1898 c'è una crisi profonda nella formazione papiniana ed egli rinuncia del tutto a quelle forme di spensieratezza letteraria di chiassate librarie giornalistiche editoriali manoscritte. La sua solitudine prende nuovi aspetti: si colora del riflesso di altri su cui imprime una sua volontà (è da leggere a questo punto il cap. IX dell'Uomo finito. Gli Altri).
   Attraverso prove e controprove si va formando quel «gruppo di giovani che erano desiderosi di liberazione, vogliosi di universalità, anelanti a una superiore vita intellettuale». Il Ragazzo scompare gradatamente: per cinque anni si matura Gianfalco e il 4 gennaio 1903 esce il primo numero del Leonardo. «Non si volge chi a stella è fisso».
   Ma già in quella vigilia, e proprio al limite di quella vigilia, Papini tentava ancora la strada della seria cultura. Aveva conosciuto, dopo aver preso il diploma di maestro elementare che non sfruttò, il prof. Ettore Regàlia, singolare e curiosa figura di scienziato osteologo e antropologo, che lo prese a proteggere e lo fece bibliotecario del Museo di antropologia con lo stipendio di 60 lire all'anno. (Ma siccome era obbligatoria l'associazione alla Società italiana di Antropologia, 20 lire, la quota che riscuoteva verso Natale si riduceva a 40. La competenza del nuovo giovane studioso si rivela in due saggi: uno in francese nella Revue Scientlfique (la notissima rivista dalla copertina rosa, di diffusione internazionale) in cui venivano analizzate le idee di uno psicologo italiano il Regàlia, antagonista implacabile di Spencer, Ardigó e Sergi; l'altro «La teoria psicologica della previsione» denso di rivelazioni e di fitte note, interessante a rileggersi anche oggi, apparso in «Archivio per l'antropologia» vol. XXXII (1902). Ma tre anni prima, quando usciva appena dalla sua vita di Ragazzo, aveva, nella Gazzetta del Popolo della domenica del 26 febbraio 1899, fatto seriamente e con autorevole burbanza una recensione a un mio libretto (io ero ancora in calzoncini corti alunno di terza ginnasiale al Galilei di Firenze) intitolato Pequeno libro de leitura portuguezza nella Biblioteca del popolo di Sonzogno i cui volumetti costavano 15 centesimi. Papini mostrava tuta grande competenza della letteratura portoghese, sebbene il suo dominio preferito era quello del territorio spagnolo.
   Dal 1903 in poi per mezzo secolo comincia quella fecondissima produzione a getto continuo nella quale spiccano, e citiamoli come punto di riferimento e di riannodamento, i seguenti libri: Un uomo finito (1912) che suscitò nei giovani di allora passione, entusiasmi e risonanze di animi concordi che non sono ancora spente: per qualcuno del giovani d'oggi la lettura prima di quel libro, anche dopo più di 40 anni, costituisce una presa di possesso della tragedia che ciascuno crede, a torto o a ragione, di combattere al primo uscire di giovinezza. Poi Stroncature (1916) dove tentava di distruggere ciò che gli sembrava ingombrante e parassitico nella tradizione nazionale: ingiustizia aggressiva, e per alcuni casi deplorevole, ma in vista di una giustizia superiore. La parentesi futurista di Papini nel 1912-13 non è che periferica, quel moto letterario politico, alieno dalla toscanità e su basi italiane del nord, che voleva essere anche azione diretta, non poteva avere molta durata in un uomo come lui in fondo in fondo di pacifica psicologia. Ma anche in questa parentesi egli si produsse in modo clamoroso col discorso «Contro Roma e contro Benedetto Croce» tenuto al Meeting futurista del teatro Costanzi il 21 febbraio 1913 dove Papini affrontò per un'ora la convulsa reazione del pubblico benpensante, fra insulti plateali e lancio di proiettili vegetali. È un gustoso episodio di un costume che ora non sarebbe più possibile immaginare, nel placido conformismo dell'ora e nell'ottimismo sempre a lieto fine tipo Lascia o Raddoppia. Discorso pieno di insulti becereschi ma, a leggerlo a distanza, contenente, tra le righe, alcune grosse verità. Ecco 1921 La Storia di Cristo, nata non da un compromesso opportunistico ma dalla incertezza dei tempi, dall'esperienza fatta dagli uomini nella sanguinosa prova della guerra mondiale. Chi o che cosa non si trasformò in quel primo dopo guerra? E una sensibilità come quella di Papini, assetato di certezze anche nel vivo delle polemiche, poteva forse restare immune da tanto e potente influsso? Il suo turbamento doveva arrivare a una conclusione ben superiore. Si osservi anche che un'aspirazione a qualche cosa di stabile e di alto traspariva nelle opere precedenti: da certe pagine dell'Uomo finito, dal cap. sull'Inno a Satana nell'Uomo Carducci, perfino nel più lontano Crepuscolo dei filosofi dove, a proposito di Nietzsche, c'era una difesa parziale delle verità cristiane. Il Dante vivo (1933), Il Sant'Agostino (1930), la Storia della letteratura italiana, primo volume, (1937), La Vita di Michelangiolo (1949) soprattutto, rappresentano altri tentativi di avvicinarsi all'umano, anche al troppo umano, spiegato, ora che egli si sentiva cattolico al cento per cento, nel significato morale della vita.
   La sua adesione al fascismo, avvenuta piuttosto tardi, e l'accettazione dell'Accademia, contrastata e osteggiata a lungo da quelli che lo consideravano un bigio, lo convinse a poco a poco che poteva rendere un servigio alla cultura nazionale per il fatto di esporre il suo pensiero, dire a sè e agli altri cose per lui essenziali. (Non era tipo da affrontare esilio o persecuzioni). In più, il senso di italianità che, col maturarsi dell'esistenza, lo riconduceva, ma in una concezione più larga e più umana, alle convinzioni che in gioventù lo avevano reso amico e discepolo di Corradini nel periodico nazionalista II Regno, gli fecero identificare le fortune della patria con quelle del fascismo stesso. Profondo dolore gli recavano le notizie che circolavano segrete, e che egli a un certo punto non volle più sentirsi ripetere, anche a costo di troncare una profonda amicizia, quelle notizie che facevano prevedere ineluttabile la sconfitta militare dell'Italia. Passata la burrasca della seconda guerra mondiale (ebbe distrutta la casa di Bulciano, caro asilo, sospirato riposo nell'alta Valle Tiberina e altre avversità) ritornò ben presto, nella casa fiorentina di via Guerrazzi, alla sua opera di ammonitore e di scrittore, e nelle Lettere agli uomini di Papa Celestino VI (1946), l'immaginario pontefice, indirizzò non ai soli cristiani ma a tutti gli uomini di ogni condizione sociale e di ogni nazionalità, e specialmente a quelli che pensano e soffrono, un messaggio commosso inneggiante a una super umanità impregnata di cristianesimo.
   Ecco poi nel 1953 il Diavolo sul quale troppo clamore è stato fatto, e fu una buona occasione per gli avversari vecchi e nuovi di Papini, ma quel lavoro era un po' affrettato. (Aveva già cominciato a perdere l'uso delle gambe e della mano e la figliola Gioconda era già gravemente ammalata tanto che di lì a poco, ancor giovane, moriva: strazio tremendo per il povero padre. L'aveva cantata giovinetta «più che figliola d'amore terrestre - ha le fattezze di un angelo stanco» quasi ne presagisse il crudele destino). Il Diavolo è da considerarsi opera letteraria e di fantasia e in esso Papini approfittò dei suoi numerosissimi materiali di appunti per arrischiarsi anche in questioni teologiche che non erano certo il suo forte. La riabilitazione del Demonio era anche una ingegnosa ma certamente umana battuta papiniana ed egli avrebbe potuto intitolare il libro «Il diavolo non è poi brutto come lo si dipinge»
   La mente di Papini è sempre stata in un continuo controllo di critica dinamica: anche le famose riviste di cui a volta a volta fu o fondatore o direttore o ispiratore o principale collaboratore hanno avuto caratteri ben distinti. Il Leonardo era mistico e pragmatista, La Voce idealista, L'anima anticrociana, Lacerba futurista e rivoluzionaria, La Vraie Italie, in francese, subito dopo la prima guerra mondiale, d'intonazione politica per la collaborazione franco-italiana. Dopo la conversione La Festa e il Frontespizio, due diversi e utili aspetti di cultura cattolica e moderna.
   L'erudizione di Papini, acquistata con tanta tenacia e in tanti anni di lavoro, gli permise di compone opere di biografia storica notevoli per il metodo seguito e per la sicurezza delle notizie. Dal Sant'Agostino dove c'è il racconto della vita di un grande, scritta da uno che ha conosciuto i tormenti angosciosi, motivi però di liberazione, dagli studi sul Rinascimento (l'Imitazione del padre), alla Vita di Michelangiolo, frutto di venti anni di ricerche appassionate e intelligenti: opera che contrariamente a quanto è stato detto da alcuni malevoli è una felice mescolanza di ricerche sottili e ricostruzione narrativa veramente geniale. Nelle pagine di Papini vi sono continui pretesti di attualità come profezia, o, a dir meglio, di allusione: caustica narrazione sono le argute frecciate lanciate nel Gog del 1930 e riprese in parte nel Libro nero del 1951, frecciate che hanno sempre colpito nel segno. Preannunziava una musica dell'avvenire fatta di boati e di melopee stridenti conte fossero lime infuriate; prevedeva un esplosivo per la distruzione dell'umanità in due ore (o che non ci siamo vicini?), immaginava la creazione di città prive di ogni regola logica ed umana; l'utilità e l'obbligatorietà di una maschera da portarsi sul volto per potere più agevolmente fare quello che si suol dire il doppio gioco: il regno assoluto della fisica sopra a tutte le altre scienze; la nuova scultura fatta col fumo effimero momentaneo non più in marmo in pietra in legno; il teatro senza palcoscenico e senza attori; l'abolizione della distinzione tra combattenti e civili nelle guerre; la fine dei Re che potranno vivere solo nella fantasia e


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nell'arte; gli uomini giudicati per mezzo di cifre, comprati e venduti per milioni a vario prezzo secondo il mercato (forse pensava ai giocatori di calcio). Le profezie del Libro nero fanno meno impressione perchè lanciate dopo più di venti anni di distanza e avvenuto l'immenso disastro della seconda guerra mondiale ma c'erano anche lì pezzi di satirica attualità come quello sulla fecondazione artificiale. Ma non si creda che Papini possa essere dichiarato un misonoista per partito preso, lui che era stato il propagandista ribelle contro ogni vecchiume. La novità — disse una volta — è necessaria chè senza di essa non c'è arte ma essere novità effettiva e durevole non apparente e formale. Augurava un nuovo classicismo senza precetti o modelli: opera nuda e compatta ipercosciente, costretta a una disciplina per ottenere potenza e libertà in più alto grado. La vanità degli sforzi idealistici, la insufficienza di riportare la verità dentro la coscienza individuale della ragione hanno condotto il Papini, dopo la sua evoluzione a cattolico, ma non determinato da questa evoluzione, a combattere anche l'arte come intuizione pura e farsi propagandista dell'arte morale, del poeta e dello scrittore maestro esemplare di vita. Per il Papini il grande artista è anche una guida e quanto più l'arte attinge le alte cime tanto più rimane modello e codice di sentimenti umani e civili.
   Circa le condizioni della nostra letteratura ebbe accenti di spregiudicata franchezza che gli procurarono in pieno fascismo, un monte di guai per via di quel famoso articolo «Su questa letteratura» pubblicato in Pegaso nel 1928. Centinaia di articoli gli furono scagliati contro: qualcuno lo propose anche per il confino. Papini negava agli italiani il genio del romanzo (salvo l'eccezione del Manzoni) e tante altre cose: rilevava una diserzione generale di lettori e di scrittori. Lettori della Gazzetta dello sport infiniti sì, ma «ai miei tempi, — diceva — i giovanetti aspettavano con ansia la Gazzetta letteraria e il Marzocco. Gli spiaccicanasi e gli spaccamascelle sono gli idoli della nostra gioventù com'erano, un secolo fa, i mangiacori romantici». E le sue ammonitrici parole contro le deturpazioni compiute dall'arte che egli chiamava disumana ebbero il più deciso intervento in quell'articolo della Nuova Antologia del gennaio 1940 ripubblicato in La corona d'argento (Istituto di propaganda libraria di Milano 1941). Esso si concludeva con queste parole che è bene riportare qui: parole di speranza (anche a costo di passare da illusi) e nelle quali mi pare di risentire la voce grave e profonda del grande amico che riposa nell'aereo cimitero delle Porte Sante a Firenze. Egli domanda: «da qual parte verrà oggi l'ardente e vincente risposta all'arte disumana? Dall'Oriente? dal Settentrione o dalla nostra Italia?» E rispondeva: «non possiamo saperlo ma sin d'ora ci sia concesso di aspettare e desiderare con fede una nuova rivoluzione spirituale diversa da quelle che furono, l'avvento di un'arte che potrebbe e dovrebbe chiamarsi arte umanista».
   Una delle caratteristiche della scrittura papiniana è quella del «genere letterario» (esistono, sì, i disprezzati generi letterari) costituito da pensieri staccati e sminuzzati, da piccole, eppure, vaste osservazioni sulla natura, sul costume, sull'arte. Questo genere ha sempre tentato Papini che così poteva sfruttare l'immenso materiale accumulato nei sette decenni della sua vita. «A volte dice più una battuta di poche parole, se messe bene, che il capitolone del librone di un autorone». (Si veda il Sacco dell'orco del 1933, il Dizionario dell'orno selvatico del 1923 e La spia del mondo del 1955).
   È un frammentarismo questo che sempre si riconduce a un'unità e rende le opere di Papini di suggestiva evocazione. Su tanti molteplici aspetti della vita e del pensiero si ferma quella sua agile e sciolta parola e ci si incuriosisce a sentire con lui il nostro accordo o il nostro disaccordo, ogni volta però sorpresi da battute improvvise nelle più apparentemente paradossali considerazioni di contrasti storici e di pensiero. Non è possibile far citazioni ma fra i tanti pezzi stesi da Papini che si affermava con legittima vanteria fiorentino, si può ricordare quello in cui si dice che quattro delle opere più famose e più diffuse nel mondo occidentale sono state scritte da fiorentini: La Commedia, Il Decameròn, Il Principe, Pinocchio, ma per avvertire purtroppo una evidente discesa: dalla Vergine Madre nell'Empireo sì cala alla Fatina azzurra del libro di lettura per i fantolini ottocenteschi. Pure in tutti e quattro c'è un sogno di avventurosa conquista o del Paradiso o dell'Amore o dello Stato o del bisogno di essere un uomo qualunque e vero in carne ed ossa.
   Papini narratore, nel senso di autore di novelle e racconti, ha una sua fisonomia che non è stata troppo riconosciuta come originale: ci sono a prima vista alcune influenze francesi inglesi e russe ma sempre ricondotte a un suo sistema di fantasia capricciosa, di divertimento, di ritratti paradossali o polemici, facendo scoprire, ma in modo semplice e spontaneo, una tesi, un problema. Sa rendere sempre vivo, vegeto l'interesse del fatto, dell'intreccio o anche del sogno. E per riscontrare l'unità del Papini novelliere, nel senso accennato, si può rileggere quel corpus narrativo intitolato Concerto fantastico pubblicato da Vallecchi alla fine del 1954. Il materiale contenuto in quel volume abbraccia oltre cinquant'anni e 110 pezzi. Si va dal Tragico quotidiano, 1906, dove furono raccolti anche racconti rimontanti al 1903 fino allo stesso 1954, attraverso Il Pilota cieco, 1907, Parole e sangue, 1912, Buffonate, 1914, Figure umane, 1940, Le pazzie del poeta, 1950, più un insieme di racconti non mai pubblicati a sé e detti La sesta parte del mondo. Orbene, chi riprenda a leggere in quest'ultima parte racconti come Armuria, Il regno di Karseni, I figli del Sole, La fiera di Oldran, La città del fuoco, Primo rapporto dei Marziani può ritrovare molto di quella già cupa ironia che era nel Ragazzo in certe prose delle riviste manoscritte a cui si è accennato in principio di questo saggio: Il nuovo Faust (era nientemeno un seguito al Faust goethiano!) dove Mefistofele, divenuto agricoltore, chiede non più l'anima all'uomo ma il corpo per ingrassare le zucche. (Un ragazzo di 15 anni sapeva scrivere così!); il ritorno alla vita di Tayet Emmone dopo 24 secoli; la storia del vecchio Egel Brook che scopre il perchè dell'esistenza dopo essersi rifugiato sopra un selvaggio picco dell'Islanda, mentre il vulcano Hecla rugge gettando la sua bava di fuoco.
   Papini poeta in versi è rimasto sconosciuto: dopo i primi ma non troppo frequenti entusiasmi suscitati all'apparizione delle sue produzioni liriche (Opera prima, 1921, Pane e Vino, 1926, Poesia in versi; 1933). Antologie recenti che vanno per la maggiore lo ignorano, pur registrando i più artificiosi e fanciulleschi giochi di numerosi poeti. Eppure, a guardare senza preconcetti la poesia in versi di Papini (alla rima tenne fede fino all'ultimo) la troviamo penetrante di estro bizzarro, infiammato di adesione con speciali varietà ai ritmi tradizionali ed essenziali. Il suo endecasillabo, per es. martellato sulla 4a e 8a bene aderisce alla sfuriata di passione che lo invade: pessimismo, noia della vita comune, amore familiare (veramente esemplari le stupende liriche alla moglie, alle figlie Viola e Gioconda) preghiere e invettive; e se dopo la conversione la sua poesia assume qualche volta un tono quasi di propaganda come nella «Preghiera per Leopardi» pure addirittura tragicamente esplosiva resta e resterà indimenticabile la lirica «Felicità irrimediabile»: «Nell'alta notte agostana, — sotto il perlato brivido, — fuori della mia tana — inginocchiato, riconobbi Iddio. — Battuto il cuore da fitti rintocchi, — abbandonandomi docile sulla — dura sassaia che trita i ginocchi — seppi alla fine il mio nulla. — Dentro di me la superbia disfarsi — sentivo tutta e nel fulvido abisso — vidi, o mi parve, due mani schiodarsi — dal tronco nero del mio Crocifisso».
   Aveva cominciato nella Voce, 14 novembre 1912 («forse sarebbe stato meglio aspettar dell'altro» disse), con quei quattro scanzonati Sonetti Plebei di perfetta intonazione rusticale toscana. (Quanto di letterario c'è stato sempre in Papini, scrittore ribelle da giovinetto, da giovane, da uomo maturo e da vecchio). Esaltava la vita contadinesca primitiva e carnale e la «meravigliosa terra di Toscana — non graziosa, non ricca, non cortese — ma dove il sasso è duro e l'aria è sana — e il cipresso imbandiera ogni paese. — Di te fanno una specie di ruffiana — pe' i forestieri che ti fan le spese — e la tremenda storia paesana — fatta è romanzo all'uso dell'inglese ».
   Sempre uomo pubblico Papini (nonostante fosse per indole così semplice, così lieto della pace familiare e dei suoi comodi personali, restio a parlare in conferenze e congressi), anche nella terribile malattia che lo colse e di cui tutti i giornali parlarono come un fenomeno spettacolare incredibile a descriversi. Era ridotto a poco a poco a cadavere vivente; spenti, distrutti tutti i sensi ma vivo il cervello. (Mi disse una volta quando ancora poteva un pò balbettare: «mi pare d'essere più agile, come mente, di prima»). Affermò anche nei più strazianti momenti la felicità dell'infelice quando il pensiero sia ancora produttivo. (Ma era soprattutto una spinta all'orgoglio come notò Prezzolini, orgoglio che lo animava in questa lotta suprema di uno spirito sul corpo).
   Quando morì aveva 75 anni e 6 mesi essendo nato il 9 gennaio 1881. Sepolto in una tomba provvisoria a San Miniato in vista di Firenze non lungi al ricordo del suo Michelangiolo.
   Non è facile fare una sintesi di tutta l'opera papiniana così varia ed anche uniforme


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nonostante le involuzioni e gli apparenti cambiamenti: opera che non può esser disgiunta, come invece può avvenire per tanti altri, dalla sua biografia né dalle contingenze in cui questa biografia venne attuata. Si potrebbe dire che in lui c'è sempre stato più o meno la caratteristica dello scrittore toscano: non mai imitatore ma contemporaneo di un sarcasmo dialettico che fu proprio dell'Aretino o del moralista icastico Anton Francesco Doni.
   Continua gli è stata la vivacità d'invenzione fantastica, via via depurata, e la freschezza vocaboliera e sintattica peculiare ai toscani migliori e che nel Papini, autodidatta, è venuta a convergere in modo estremamente singolare. Se Croce, d'Annunzio, Romain Rolland insieme con Zuccoli e Benelli e Guido Mazzoni da lui così ferocemente attaccato non solo per bisogno di pubblicità (cosa della quale poi sempre si rammaricò) furono i bersagli contro cui lanciava i dardi della sua esasperata voglia di andare contro corrente, anche dopo, nel solenne magistero da lui assunto, con l'intenzione di affermarsi «scrittore maestro» ammonitore e incitatore di alti ideali, altri bersagli anonimi ma di chiara identificazione egli colpiva contro entità della torbida e cosiddetta civiltà contemporanea. Bersagli toccati con violenza dall'ansiosa sua esasperazione che specialmente negli anni giovanili cominciava a freddo e continuava a caldo.
   Pochi autori come lui sono stati così malcompresi, deformati, travisati e fra i moltissimi suoi ammiratori, fra i parecchi che lo incensavano, c'erano motivi di interessi particolari o di profitto cercato. Ma anche pochi come Papini sono stati diffusi tanto oltre i confini della patria sicchè egli ha rappresentato l'Italia in ogni regione del globo. Si veda l'elenco delle traduzioni che ha avuto e continua ad avere nel «Papini vivo» edito da Vallecchi a cura di Mario Gozzini pochi mesi orsono (luglio 1957), in arabo, armeno, bulgaro, catalano, cinese, ceco, danese, esperanto, finlandese, francese, giapponese, greco moderno, inglese-americano, lituano, maltese, olandese, polacco, portoghese, brasiliano, russo, serbo-croato, slovacco, sloveno, spagnolo, svedese, tedesco, ungherese, yddisch.
   L'opera di Papini, così poliedrica e che si snoda nello spazio culturale durante il primo novecento, è destinata a vivere e con gli inediti postumi che si vengono pubblicando col «Rapporto degli uomini» (Giudizio universale) che ha occupato Papini dal 1907 al 1952 (quasi mezzo secolo), continua a tenere desta l'attenzione su di lui come su persona viva e che ancora produca, e via via che ci si allontanerà negli anni, spente passioni, riaccesene altre, come succede nell'eterno gioco dialettico dei tempi, lettori nuovi si accosteranno con rinnovato interesse a parecchie di queste migliaia e migliaia di pagine che ci ha lasciato da vivo e da morto, risuscitando discussioni, entusiasmi, polemiche e incontri.
   Io mi accorgo che, anche dopo tanti anni, è vivo in me ancora tutto intero, tutto lui come allora il Ragazzo che ebbi la fortuna d'incontrare maestro e amico. Viene con quelli che mi pare non siano più morti e rivivano, ora, soltanto per me.


MINIMA BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

   Le opere dl Papini sono state quasi tutte edite da Vallecchi e se ne veda l'elenco cronologico in Papini vivo (Vallecchi, 1957, pp. 183-186). Si veda poi ROBERTO RIDOLFI, Vita di Giovanni Papini, Milano 1957, contenente biografia, critica, bibliografia.

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G PREZZOLINI. Discorso su G. P. Libreria della Voce 1915 (nuova ed. rifatta. Torino. Gobetti, 1925).
E. ALLODOLI. Il domatore di pulci. Firenze, La Nave, 1922. pp. 158-161.
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G. ANSALDO. Il volto di Papini in Illustrazione italiana, Agosto 1956.
La Fiera letteraria. 25 Novembre 1956 (numero dedicato in parte a Papini con articoli di Nicola Lisi, Piero Rebora, Luigi Santucci, Mario Gozzini, Luigi Fallacara, Ettore Allodoli, Janvier Lovreglio).


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